GENOVA.
E’ diventata scrittrice, e che scrittrice, andando a Lourdes. Ragion
per cui è perfettamente inutile gridare al miracolo, anche se una
punta di soprannaturale, chissà, potrebbe anche starci. Al Caffè degli
specchi, nel centro di Genova, Rosa Matteucci è felicissima per le
lodi di Carlo Fruttero e si chiede se per caso non ci sia lo zampino
della mamma, scomparsa un anno fa, donna bellissima, coltissima, un
po’ originale. «Magari è andata a parlare con Franco Lucentini, lei
spiritello fosforescente con tutti i suoi cani. Magari gli ha chiesto
se si poteva dare una mano a questa figlia». Decidere se stia parlando
ironicamente o sul serio non è facile: o meglio, il problema sono le
proporzioni tra le due tonalità. Forse bisogna rivolgersi a una terza
categoria, quella del grottesco, in cui è maestra, anche se
naturalmente non basta a contenerla.
È stata una rivelazione col suo primo romanzo, Lourdes per l’appunto,
nel ‘99, arrivando da Adelphi nel modo più semplice e banale, quello
generalmente sconsigliato ai più: aveva mandato il dattiloscritto. Non
una stampata di computer, «una vera copia scritta a macchina e piena
di correzioni - precisa -. All’Adelphi e basta. Forse non avevo
neppure il denaro per fare le fotocopie e spedirle ad altri». Era un
periodo difficile: aveva perso un ottimo lavoro al Quirinale (finito
il settennato di Cossiga, si era deciso di tagliare e lei era stata
sacrificata), si arrabattava come guida turistica abusiva in Umbria,
ma non a Orvieto che è la sua città natale, perché lì tutti la
conoscevano e sarebbe stata immediatamente denunciata. Accompagnava
orde di giapponesi a Terni, perché si immortalassero in teatrini
devoti davanti alla mummia di San Valentino. Ed era appena andata a
Lourdes per fare i conti col Padreterno, visto che gli era morto il
padre e lei si sentiva come la protagonista di Cuore di mamma:
strangolata da un dolore cui non riusciva ad attribuire senso. Ma
queste sono cose note, che ha raccontato altre volte: a Lourdes trovò
«Dio nella piscina», curando le piaghe, affrontando i corpi nel loro
disfacimento, nella loro carnalità più avvilita; e alla fine ne
scrisse. «L’ho fatto per mio padre». Aveva preso una nuova strada,
forse definitiva, e ancora non lo sapeva. «Non capisco perché la gente
spasimi di scrivere libri. Io mi ci sono trovata - spiega - e in fondo
era una situazione cui non ambivo per niente. La scrittura è stata
l’unica possibilità di esistere. Credo che se non mi avessero cacciata
dal Quirinale non sarebbe successo nulla. Pensavo di essere una brava
dirigente». Ora c’è una dirigente in meno e una brava scrittrice in
più, anzi secondo Fruttero - lo ha detto, un po’ a sorpresa, a Vanity
Fair - la più brava di tutti. Meno male.
«Meno male? Ma via. Io scrivo perché ho avuto una vita dickensiana» In
che senso? «Come Davide Copperfield». E giù a raccontare: una madre
appunto bellissima, colta, affascinante, erede di antico casato
orvietano, quindi ricchissima. Un’infanzia dorata. «Ero una bambina
cui si dava del lei». Poi la rovina economica: il nonno perde tutto,
il palazzo va all’asta, il padre ha il vizio del gioco e la famiglia
si trasferisce a Venezia, in un pied-à-terre che originariamente
serviva come base per il Casinò. Miseria, sconcerto. «Sono stata
dislessica, ho imparato a leggere e scrivere in terza elementare.
Ancora adesso tronco le parole in modo dialettale». La cultura,
infine, come forma di resistenza: tornati a Orvieto, nel «cachot» dove
ora vivevano («Un cachot come quello di Bernardette»), sua madre per
invogliarla le traduceva gli articoli di Terzani dallo Spiegel, e in
terza media la metteva su Musil e Joyce, in lingua originale.
Matteucci racconta inarrestabile, con un linguaggio simile alla ricca,
densa prosa dei suoi libri. Elenca gli amici strani che giravano in
casa del nonno, maghi spiritisti e avventurieri, o i grandi personaggi
come Guido Carli con la moglie pittrice, i cui quadri giudicati
orrendi venivano nascosti, per essere esibiti solo in occasione delle
visite. Torna sullo choc di cambiare vita, e cambiarla ancora, e
ancora. Ora vive tra Genova, dove si è stabilita per amore (galeotta
fu un’intervista, racconta), e dove fa, provvisoriamente, la «giocattolara»,
e Orvieto, dove ogni tanto vede Susanna Tamaro, la cui fattoria è lì
vicino. È un assedio di memorie, un romanzo, il prossimo. «Per forza,
sarà la mia autobiografia. ‘Sta famiglia non mi molla». C’è da giurare
che al centro ci sarà la mamma, non la vecchia, terribile, grottesca,
comica icona del dolore che campeggia nel suo ultimo libro, ma
qualcosa di più simile a quella vera: quella che ha detto una parolina
a Lucentini, tra paradiso e girone dei suicidi, evidentemente
collegati. «Se no, ‘sta cosa non si spiega». |