Racconti inediti scritti per Rockstar
Mi sentivo invisibile
Di Claudio Baglioni

Claudio perso nei suoi pensieri. "Mi ricordo, sì, io mi ricordo" 
"Soffiare nell'insieme confuso di occhi, naso e capelli, l'alito di un'identità. La mia" Cantina. Polvere. Pareti che sudano. Odore di muffa e olio di motorino, su un orizzonte ambrato di birre anonime e sfiatate. Soffitto basso. Fumo che si addensa e arriva quasi ai piedi. Piramidi spettrali di resti di altre case, altre vite, altre famiglie, ammucchiate nell'angolo lontano. Tappeti vecchi, coperte tarmate e cartoni delle uova a tamponare i suoni: garze inutili, per un'emorragia che non si può arrestare. Strofinacci sulle pelli dei tamburi, chitarre impossibili da accordare e un basso che fa vibrar e la cordiera del rullante e il palazzo. Un trentatré giri che ondeggia sul piatto e tutti intorno a cercare di tirare giù gli accordi di un pezzo la cui tonalità dipende più che altro dall'umore del giradischi. E aspettare il sabato per le prove. E, oltre al sabato, aspettare quello stronzo del batterista, molto più interessato a quella che a-te-non-la-darà-mai che non alla scaletta per il "concerto" alla festa di Luca. E' cominciata così. Come per tutti. Con alti e bassi che nemmeno sulle montagne russe. E uscire dalla cantina con le orecchie che fischiano e i pensieri divaricati tra l'ebbrezza che da l'idea che il mondo sia li, ad un passo, e che basti allungare la mano per prenderlo, e il precipizio nel quale ti sprofonda il sospetto che non sappia nemmeno che esisti e - prospettiva ancora più devastante- che non lo verrà a sapere. Mai. Mi sentivo invisibile. Uno che assumeva il colore del divano su cui si sedeva o della parete alla quale si appoggiava. Non mi avrebbero notato nemmeno fossi stato l'unico essere umano nella stanza, con una freccia luminosa che lo indicava e diceva "Claudio è qui!". La cantina è stata utero, bozzolo, fucina. Un ring di cemento e neon, come un hangar dove mettere insieme i pezzi e provare a vedere se la musica fosse riuscita laddove tutto il resto aveva fallito: soffiare nell'insieme confuso di occhi, naso e capelli, l'alito di un'identità. La mia. Il punto non era il successo. (Non sapevamo nemmeno cosa volesse dire avere successo). Era l'identità. Una volta definita, saremmo finalmente diventati visibili. La musica è stato tuffo questo. Non a tutti regala il successo, certo, ma a tutti permette due cose: capire chi siamo e non restare mai soli. Un debito che, personalmente, non riuscirò mai a saldare. Crescendo parte da lì. Da quella cantina. Da emozioni sconosciute e selvatiche che cerchi di cavalcare e addomesticare, ma ti disarcionano. Una, dieci, cento volte. E una, dieci, cento volte rimonti in sella. Parte dalla rabbia per ciò che non sei e dalla voglia che, da dentro, ti urla che devi deciderti a diventarlo. Il resto lo conoscete. La storia si è impennata all'improvviso, come una frizione lasciata troppo in fretta. Una ruota su e una giù. E tu in mezzo, tra qualcosa che cerca di strapparti via da qui e qualcos'altro che ti tiene inchiodato all'asfalto della vita. Sono passati trentasette anni da allora, da una periferia pasoliniana che non amavo (e dalla quale ero cordialmente ricambiato) e da un mondo in bianco e nero che sembra lontano anni luce e che, invece, ti mette spalle al muro di fronte alle stesse domande. Domande alle quali non riesci a dare risposte convincenti nemmeno Crescendo. 
Ecco perché questo tour e perché questo palco. Perché la casa siamo noi. Ad ogni piano una stagione e in ogni stanza le cose che ci portiamo dietro. Cose che vogliamo avere intorno (un disco, un libro, una foto, un oggetto inutile raccattato chissà dove al quale non sappiamo rinunciare), perché parlano di noi e perché, senza, ci mancherebbe qualcosa. Non solo qualcosa del tempo che è non c'è più o di quello che non c'è ancora, ma proprio una parte di noi: pelle, ossa, nervi, cuore, denti, capelli. Ecco perché una "cantina" - spoglia e ruvida sotto gli stessi neon di allora - dove ritrovare le ragioni di certe scelte e l'energia che quelle ragioni e quelle scelte sanno ancora tirarti fuori; un "soggiorno", dove quelle energie si raccolgono e si spremono, nel lento lavoro di costruzione di se, dei propri pensieri, delle parole e delle note che si raccolgono lungo la strada; una "terrazza" dalla quale, come in un'eterna notte di Capodanno, si va incontro al tempo che viene, tra la tensione e i brividi che accompagnano ogni vigilia; fino all'adrenalina pura dello show vero e proprio, che parte (a quasi due ore e mezza dall'inizio del concerto) nel momento nel quale la casa di Crescendo si spoglia di tutto e torna nuda, come deve essere un palco. E quando anche l'eco dell'ultima nota ha abbandonato il palasport e tutto ciò che resta sotto il ghiaccio delle luci è il clangore di chi lavora a smontare il palco, per impacchettarlo e spedirlo alla stazione di posta della prossima città, so che non riuscirò mai a saldare il debito contratto in quella cantina. Forse è per questo che, dopo tutti questi anni, continuo a scrivere canzoni e a fare concerti: per cercare di restituire tutto ciò che la musica mi ha dato e dimostrarle almeno che se qualche volta l'ho delusa, lei non lo ha fatto mai.